L’Approdo

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Sono arrivata dal mare per quest’ultima tappa, ho deciso di raggiungere la Sicilia passando per l’acqua. La mia nave salpa mentre guarda Napoli che brilla di luci, sono le 21:30 del 23 Agosto 2019.

Palermo è tutto porto… mi raccontava esattamente un anno fa Fiammetta Borsellino, ero qui per Manifesta 12 per un altro progetto e le sue parole mi sono rimaste incise dentro.

Stamattina correndo lungo il Foro Italico mi sono fermata a guardare una giovanissima di colore che con le mani accarezzava il mare e cercava di stare in equilibrio sul filo dell’orizzonte. 

Bibi è cieca, non vede, sfiora e sorride mentre continua a rivolgersi a quel confine di mare da dove è giunta anche lei. 

La Sicilia mi accoglie ad occhi chiusi e braccia aperte – come quelle di Bibi – con lo slancio di chi cerca un posto dove continuare a giocare. 

 

Il corno della Luna

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Sono sul Corno d’Oro “Haliç – Tersane” di Istanbul,  che è uno dei più grandi cantieri navali del Mar Mediterraneo.  Oggi finalmente ho scelto la prossima location per il video. 

I turchi ottomani usarono la parola liman (dal greco limēn) per riferirsi ai porti in generale, ma nel XV secolo adottarono e iniziarono sempre più a usare il termine tersane (spesso interpretato erroneamente come tershane, incorporando il termine hane, “casa”) dall’italiana darsena, “cantiere” – analogamente all’origine dell’arsenale inglese – che a sua volta deriva dall’arabo dār al-sināʿa.

Il paesaggio che si apre di fronte ai mei occhi è totalmente surreale: dal corno si vede tutta Istanbul, mentre cammino su un vecchio traghetto abbandonato come una balena che sta per morire. 

Ci sono ancora enormi vasche vuote che accolgono queste imbarcazioni come si faceva nel periodo ottomano per ripararle. Il cantiere navale di Halic fu fondato nel 1455, due anni dopo che Istanbul fu conquistata da Sultan Mehmet II. Fu attivamente utilizzato durante il periodo ottomano per scopi militari e civili, ma sfuggì alla distruzione industriale e ai piani urbani di accompagnamento che trasformarono il Corno d’oro negli anni ’80. Nonostante ciò, i suoi cantieri navali – Camialti e Taskizak, rimasero attivi fino al 2001 quando furono trasferiti in nuovi siti industriali nella periferia di Istanbul. 

Attualmente questi spazi sono stati messi in gara, anche con investitori stranieri, e  proprio dove passeggio verranno costruiti 2 porti di yacht, 2 hotel di lusso a 5 stelle di 400 camere ciascuno, una moschea di mille capacità, un centro commerciale e altre unità simili. 

Per il il Primo Ministro Recep Tayyip Erdoğan questo progetto è una grande opera che rappresenterà il “sultano” di Istanbul, il corno d’oro si spegne sotto la luna rossa della bandiera Turca che sventola sul Bosforo.

 

 

 

 

 

 

Garibaldina

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Dal giorno del mio arrivo ad Istanbul non ho fatto altro che cercare di individuare il luogo giusto dove  girare il mio video. Questo progetto è fortemente processuale per me perché ad ogni tappa devo ricominciare d’accapo e vivo la tensione costante di ogni passaggio. 

Inutile dire che Istanbul in questo momento storico viva una situazione “delicata” data dalla sua situazione politica. Inserirmi tra un passato glorioso – fatto di grande fascinazione per quella Turchia moderna voluta da Mustafa Kemal Ataturk – e la Turchia di oggi dominata da forti tensioni sociali non è affatto semplice.

Riuscire ad ottenere i permessi per girare il mio video ha comportato una forte dose di diplomazia e un lungo momento di sospensione in cui ho percorso più di 14 km al giorno in cerca della giusta visione.

Così aspettando di incontrare il console di Istanbul – nel bellissimo consolato nel quartiere centrale di Beyoğlu, all’interno del parco di Palazzo Venezia, storica sede dell’ antica Ambasciata della Serenissima Repubblica di Venezia – guardo le vecchie carte che raccontano da sotto il vetro la presenza di un giovanissimo Garibaldi in Turchia. 

 

Questo spirito da “garibaldina” mi spinge a cercare il mio kairos, il tempo propizio per essere pronta ad attivare tutti gli ingranaggi che portano alla realizzazione del mio lavoro. Cerco di mettere insieme pezzi così diversi: le questioni politiche, i permessi, il lavoro con il coro e le mie idee. Emerge sempre di più che l’impianto estetico e formale che ho pensato più di un anno fa a tavolino diventa reale e corrisponde allo spazio che scelgo per la performance canora – come fosse una struttura ossea – e si libera attraverso il gesto di improvvisazione che chiedo di fare alle ragazze del coro. 

Sta affiorando sempre di più una consonanza tra la performatività del coro e le mie azioni in città, i loro gesti ripetitivi si sovrappongo ai miei. Il lavoro di regia che faccio sul set come ovvio che sia è costruito diversamente – visto che ho circa 25 persone da dirigere –  con una ricerca dell’inquadrature, dei costumi, del trucco etc.. che progetto prima. I movimenti che le ragazze fanno in scena hanno la stessa “qualità” dei miei: lavoro con “non professioniste” che seguono le mie indicazioni, anche in questo caso l’elemento della tensione e dell’improvvisazione diviene una cifra estetica. Tutto però risulta rigido, inquadrato e regolare la parte emotiva trapela dal canto, dal vibrato come nelle mie performance la fatica ed il fiato umanizzano la meccanicità dei gesti.

Il lavoro procede come sempre per stratificazioni, come se ogni dettaglio che metto in scena sia un indizio da seguire. Dalla scelta dei colori diversi per ogni Paese delle uniformi delle ragazze, al trucco pop anni 80 che rompe la visione retorica e pesante del passato che emerge dai vestiti tradizionali, ai movimenti da automi che si alternano al luogo ed ai visi delle ragazze che improvvisamente si umanizzano. 

La voce ed il canto restituiscono come una partitura linguistica la breadline che si incarna nei luoghi utopici e a volte distopici che ho scelto, l’architettura prende forma attraverso il corpo e ci parla con la voce del canto.

 

 

 

 

 

Lo scambio

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Oggi sono stata a fare le prime prove con il coro con Lozan Mübadilleri Vakfı Korosu quello che ho scelto fa parte di una fondazione particolare Turco-Greca che cerca di rimettere in connessione i greci-turchi ed i turchi-greci del famoso “exchange” come lo chiamano qui. Una vera forma di deportazione forzata tra due paesi, uno scambio obbligatorio nato dalla convenzione greco-turca firmata a Losanna nel gennaio del 1923. 

Esso consistette in due diversi movimenti di popolazione, in direzione opposta: i cristiani dell’Anatolia e della Tracia orientale vennero trasferiti in Grecia, mentre i cittadini greci di fede islamica trasferiti in Turchia. Oltre ai turchi stabilitisi in Grecia, vennero infatti espulsi i membri della comunità islamica di Creta, alcuni rom di fede islamica, nonché pomacchi albanesi cham e alcuni megleno-rumeni di fede islamica. Complessivamente circa due milioni di persone abbandonarono le terre dell’attuale stato turco spostandosi, a partire dal 1914 al 1923.

Nell’aula dove faccio le prove con il coro leggo le declinazioni in lingua greca dei corsi settimanali che fanno in questa stanza, un modo per tenere vivo il passato di queste famiglie attraverso la lingua.

È stata la prima volta che la comunità internazionale non solo accettò ma anche impose, là dove le minoranze avevano resistito o non erano state travolte dalla violenza della guerra, uno “scambio” di questa portata.

Esso portò inoltre a processi forzati di ellenizzazione (è il caso dei karamanlidi) e di turchizzazione (è il caso dei greci di fede musulmana). In particolare, determinò la fine della plurimillenaria storia dei greci in Asia minore. La portata degli eventi per la Grecia fu tale che ha cambiato profondamente la vita politica, sociale e culturale dell’intera nazione greca ma anche i rapporti diplomatici tra la Grecia e la Turchia che richiesero talvolta l’intervento delle Nazioni Unite. Mentre chiudo la porta sento partire un Sirtaki.

 

 

 

 

La voce

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La mattina mi sveglio molto presto, non mi sono ancora abituata al richiamo del muezzin che cinque volte al giorno recita l’adhān dal minareto della moschea vicino casa.

A volte rido perché l’altoparlante gracchia e arriva una voce distorta del canto di preghiera, intanto di sottofondo sento il suono delle sirene delle navi.

Dalla finestra di casa mia si vede il bosforo, i traghetti la notte mi fanno compagnia quando mi affaccio e scorgo le luci che si riflettono sul mar di Marmara. Anche qui la strada d’acqua mi conduce trasportandomi in una dimensione sospesa che mi da la possibilità di osservare questa città, così fitta di persone e voci, e di prenderne le distanze.

Qui è tutto una commistione di sensazioni che si sovrappongono tra i pinnacoli delle moschee, le antiche case ottomane tutte in legno, i veli delle donne e i gatti che sono i reali sultani di questa città.

“Ho trascorso la mia vita ad Istanbul, sulla riva europea, nelle case che si affacciavano sull’altra riva, l’Asia. Stare vicino all’acqua, guardando la riva di fronte, l’altro continente, mi ricordava sempre il mio posto nel mondo, ed era un bene. E poi, un giorno, è stato costruito un ponte che collegava le due rive del Bosforo. Quando sono salito sul ponte e ho guardato il panorama, ho capito che era ancora meglio, ancora più bello di vedere le due rive assieme. Ho capito che il meglio era essere un ponte fra due rive. Rivolgersi alle due rive senza appartenere…” Così Orhan Pamuk parla della sua Istanbul dal mio comodino.